Come impariamo una lingua – parte prima

FullSizeRenderAbbiamo già analizzato in un precedente articolo le ragioni che hanno portato al fallimento del metodo tradizionale di insegnamento delle lingue classiche e quanto sia necessario impegnarsi per rendere nuovamente al latino ed al greco, fin dalle primissime fasi del loro apprendimento, il loro status di lingue, e quindi di mezzi di comunicazione. Questo fatto, lo ripetiamo, comporta in maniera inequivocabile che comincino a far capo alla moderna glottodidattica e alle sue regole, da cui caparbiamente vengono tuttora tenute a distanza. È una equazione che ancora stenta ad essere accettata, ma la sua chiarezza è lampante: se il latino ed il greco sono lingue e la Glottodidattica studia e regola l’apprendimento e l’insegnamento delle lingue, allora il latino ed il greco devono essere regolate dalla Glottodidattica. Si assiste, però, nel campo degli Studi Classici, ancora ad un netto rifiuto di tutte quelle ricerche e quei campi di studio che cercano di indagare metodi e approcci per l’apprendimento delle Lingue Straniere, quando tali ricerche tentino di influenzare la Glottodidattica delle Lingue Classiche. Compito di questo articolo e dei due che seguiranno sarà mostrare e dimostrare quanto, partendo dalle ricerche in glottodidattica, neurolinguistica e psicodidattica, sia necessario rivedere quello che accade durante le ore di insegnamento del latino e del greco antico.

SLAT E RUOLO DEGLI EMISFERI CEREBRALI NELL’APPRENDIMENTO LINGUISTICO

Stephen Krashen

Stephen Krashen

Gli studi sull’apprendimento delle Lingue Straniere muovono i loro primi passi tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 principalmente ad opera di Stephen Krashen che elabora la Second Language Acquisition Theory (SLAT – Teoria dell’acquisizione della seconda lingua). Alla base delle teorie di Krashen vi è l’opposizione fra acquisizione e apprendimento. Quest’ultimo è un processo razionale, governato dall’emisfero sinistro del cervello, e non produce una acquisizione stabile: si tratta di una competenza provvisoria, a breve/medio tempo, che tende a svanire nell’arco di un semestre al massimo (ma anche molto meno, come una settimana). L’acquisizione invece è un processo inconscio che sfrutta le strategie globali dell’emisfero destro del cervello insieme a quelle analitiche dell’emisfero sinistro: quanto viene acquisito entra a far parte della competenza della persona, entra cioè nella sua memoria a lungo termine.  Al di fuori delle teorie sulla Second Language Acquisition di Krashen, il concetto di apprendimento viene di frequente sovrapposto al concetto di acquisizione, dal momento che quest’ultimo è ormai accettato univocamente dalla glottodidattica delle lingue straniere. Noi manterremo invece, in questo e nei prossimi articoli, tale distinzione oppositiva affinché il concetto di acquisizione, ancora estraneo alla didattica delle lingue classiche, diventi patrimonio dei docenti di latino e greco.

Abbiamo fatto un accenno alla cooperazione dei due emisferi del cervello nell’apprendimento delle lingue: la neurolinguistica, che studia il funzionamento del cervello in ordine al linguaggio, ha avuto un ruolo essenziale in glottodidattica nell’indicare le diverse funzioni dei due emisferi. Essi infatti si comportano in modi tra loro totalmente diversi nel processare gli input in arrivo: quello sinistro, come abbiamo accennato, è preposto alle attività razionali, sequenziali e logiche, quello destro alle attività globali, olistiche, quindi contestuali (ciò che la neurolinguistica definisce principio di bimodalità). Nonostante le ricerche dimostrino che la lingua viene memorizzata nelle aree di Broca e Wernicke dell’emisfero sinistro (preposto, lo ricordiamo, all’attività analitica), è stato altresì dimostrato che entrambi gli emisferi operano nell’acquisizione della lingua. aphasia_diagram_700wCiò avviene però secondo una sequenza che vede in opera anzitutto le operazioni globali, e solo in un secondo momento quelle analitiche. Questo, in neurolinguistica, è chiamato principio della direzionalità, per cui, pur nella costante cooperazione dei due emisferi nell’apprendimento, le operazioni globali dell’emisfero destro precedono quelle analitiche dell’emisfero sinistro, in cui comunque le informazioni saranno poi memorizzate. Così, nell’apprendimento di una lingua “la soddisfazione dei bisogni pragmatici precede il bisogno di accuratezza formale”. Il processo sequenziale deve quindi essere

           globalità ———–>  analisi ————> sintesi

Occorre inizialmente fornire agli studenti una serie di esempi (che chiameremo input linguistici) con cui dovranno familiarizzare, ripetendoli anche a voce alta (in questo giocano un ruolo fondamentale i neuroni specchio) e a cui seguirà una creazione di ipotesi e la loro verifica (tramite ulteriori input o tramite la produzione in lingua, detta output). A questo dovrà seguire la fissazione di quanto ipotizzato e verificato e quindi, solo in un secondo momento, la riflessione sulle regole per mezzo poi dell’attività metalinguistica: tramite questi passi si raggiunge l’acquisizione.

IL MECCANISMO DI ACQUISIZIONE LINGUISTICA DI CHOMSKY

Il processo che ho appena descritto mette in atto il Language Acquisition Device (LAD – Meccanismo di Acquisizione Linguistica), ipotizzato da Noam Chomsky.

Noam Chomsky

Noam Chomsky

Si tratta di un meccanismo geneticamente caratterizzante della nostra specie e che consente l’acquisizione del linguaggio, sia esso madrelingua o una lingua straniera. Partendo così dall’osservazione dell’input, si fanno ipotesi e si verificano le ipotesi, si fissa quanto appreso e vi si riflette analiticamente. Tornando ad essere fortemente pragmatici ed osservando quello che avviene a lezione di latino e greco, è facile accorgersi come questo processo sia totalmente invertito: l’analisi grammaticale precede sempre l’osservazione linguistica. La produzione di ipotesi in latino ed in greco da parte degli studenti è totalmente estranea al nostro campo, pur essendo fondamentale ed anzi ineludibile  nell’apprendimento della lingua, e tale mancanza rende perlopiù infruttuoso, per gli studenti, l’apprendimento. La creazione delle ipotesi riporta alla teoria della centralità dello studente nell’acquisizione delle lingue, con un sostanziale ribaltamento dello schema delle lezioni rispetto alle classiche lezioni liceali, in cui il docente “informa” gli studenti che solerti prendono appunti. Tratterò comunque questo punto, insieme agli stili cognitivi, nel prossimo articolo.
Quello che sto dicendo è comunque totalmente supportato da Balboni che, da esterno, afferma che il processo alla base del LAD viene totalmente “pervertito” (e non semplicemente invertito) dalla tradizione didattica delle lingue classiche. Eppure il modello è abbastanza chiaro, quasi elementare: il cervello ha bisogno PRIMA della fissazione inconsapevole dell’input (emisfero destro) e solo DOPO della riflessione sull’input (emisfero sinistro). Solo così le informazioni saranno velocemente immagazzinate e faranno parte delle competenze linguistiche.

Iniziare dunque una lezione riversando sugli studenti regole ed eccezioni è così controproducente se la scienza ci dimostra che il cervello (che è l’organo preposto all’apprendimento) non acquisisce così le lingue. Purtroppo in molti casi si assiste al rifiuto in toto di queste teorie, con picchi di ignoranza che raggiungono frasi del tipo “Ma chi so’ ‘sti Cioski e Crashe? Il latino e il greco si sono sempre insegnati così!”. Ricordiamo che mentre Von Wilamowitz lo leggiamo in quattro o cinque, Cioski e Crashe hanno permesso un balzo in avanti a tutti gli studi sull’apprendimento in generale e sull’apprendimento linguistico in particolare, e se molti di noi sanno correttamente l’inglese e altre lingue moderne è grazie ai loro studi e perché qualcuno li ha presi in considerazione.

IL RUOLO DELLE FACOLTÀ DI LETTERE NEL MANCATO AGGIORNAMENTO SCIENTIFICO

Chiunque abbia frequentato Lettere Classiche all’Università, sa quanto i percorsi di antichistica siano fortemente autoreferenziali: non è infatti dato in nessun modo spazio (o forse pochissimo) all’interdisciplinarità, anche fra campi molto vicini fra loro, come quello storico-archeologico e quello filologico-letterario. A parte rarissimi casi, primo fra tutti quello di Torino, c’è una scarsa attenzione all’aggiornamento scientifico in neurolinguistica e glottodidattica. Questo atteggiamento è viziato da una tradizione che tiene sostanzialmente ancorati gli studi classici agli schemi ottocenteschi, lasciando formalmente a debita distanza i passi in avanti che sono stati fatti dagli inizi del ‘900 ad oggi nella glottodidattica, ritenendola generalmente non all’altezza di avvicinarsi alla grandezza degli studi sulla classicità. Questo è purtroppo un atteggiamento puerile e borioso, presente non solo in neolaureati, ma anche in grandi studiosi. Quello che avviene è dimostrato in maniera inequivocabile da Paolo Balboni, ordinario di Didattica delle Lingue alla “Ca’ Foscari” di Venezia, il quale nel suo testo Fare educazione linguistica (Utet 2013) afferma che il latino e il greco

“nel sistema scolastico italiano spesso sono proposte non solo come lingue morte, ma sono cadaveri collocati sul tavolo anatomico del grammatico che disseziona i testi non per  cercarne una vitalità ormai buttata da questa metodologia, ma l’eccezione, la consecutio particolare, l’aoristo intraducibile e  così  via.”

Così Balboni mostra, forse anche con una iperbole di durezza eccessiva, quanto in altri campi di studi il nostro lavoro sia sentito come retrogrado e ben poco aggiornato.

Va infatti detto che il metodo grammatico-traduttivo è ben conosciuto dalla glottodidattica, che però lo ritiene parte di una tradizione didattica ormai chiusa. Sempre Balboni infatti sottolinea che

“si tratta di una tradizione ufficialmente sconfessata da tutti ma che […] nelle Lingue Classiche non è mai stata messa in discussione”.

Occorre quindi che i Dipartimenti di Lettere Classiche si aggiornino fornendo forse qualche dottorato di ricerca in più in questi campi e qualcuno in meno per l’ennesima edizione critica di Aristofane.

Giampiero Marchi


clicca qui per leggere “Come impariamo una lingua – parte seconda”



Bibliografia generale:

– Paolo E. Balboni: “Fare educazione linguistica”, Utet 2013

– When dead tongues speak: teaching beginning Greek and Latin, edited by John Gruber-Miller, 2006


11 pensieri su “Come impariamo una lingua – parte prima

  1. Putroppo devo confermare che l’Università italiana e i suoi corsi classici sono molto autoreferenziali, costituiti dall’accostamento di moduli che funzionano come compartimenti stagni e da cui trapela tutta la rivalità interna al corpo docente, fattore che certamente non stimola né la crescita né la ricerca. Nella mia esperienza, devo dire che la grammatica (greca e latina) si dava addirittura per scontata, e i corsi riguardavano cavilli ultraspecialistici, formando comunque studenti del tutto inadatti all’insegnamento di quelle lingue. Non solo non si mettono in discussione metodi e tecniche di approccio alle lingue classiche, ma si rifiuta ogni tipo di autonomia nell’esperienza degli studenti, come se un loro apporto personale potesse scalfire un tempio di sapere ancora uguale a quello ottocentesco; se, invece, scavassimo fino all’origine dell’Umanesimo, come si legge nei vostri articoli (in particolare in quello su Erasmo) avremmo un’immagine molto più “sana” degli studi classici. Credo sia il momento di uno svecchiamento, anche perché solo con la disponibilità ad un approccio più diretto e spontaneo al sapere, in ogni sua forma e certamente anche nell’apprendimento linguistico, potremo salvare quelle discipline che sono oggi, del tutto ingiustamente, giudicate obsolete.

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    • La situazione è grave. Occorre un’ inversione di marcia, ma occorre che sia sentita come necessaria da parte di chi ha la responsabilità di tramandare il sapere classico alle future generazioni. Il rischio è che si tenti l’approccio di nuove strade solo per timore di perdere la poltrona e senza una adeguata formazione, cosa che vanificherebbe ulteriormente il lavoro di tanti anni, fatto da noi e da altre persone come noi che, pur se spesso sbeffeggiate, continuano a lavorare con serietà e rigore per mantenere vivo l’interesse per i tesori del pensiero antico.

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  5. Parole sante, davvero!
    Io sono insegnante specializzata di italiano per stranieri, mi sono formata proprio a Venezia, alla scuola di Balboni. Da oltre 8 anni tengo corsi per stranieri. Ma al tempo stesso (visto che in Italia sembra sia impossibile fare questo lavoro) affianco a questo lezioni private di latino e greco. Purtroppo io faccio solo recupero, e anche volendo non potrei fare veri e propri corsi ai ragazzi, le ore sono ovviamente poche… Ma confesso che il mio sogno nel cassetto sarebbe quello di imparare ad insegnare con il metodo natura e poi poterlo fare..
    è difficile recuperare questi ragazzi, anche nella motivazione (e non dimentichiamo l’importanza estrema che ha la motivazione, il piacere, nel processo di acquisizione linguistica!).
    Inoltre, è pur vero che io stessa ho imparato il latino, a suo tempo, con il metodo grammaticale-traduttivo, ma innanzitutto ho avuto un’insegnante eccezionale, che mi ha appassionata a questi studi, e in secondo luogo trovo che noi avevamo dei “correttivi naturali”, per così dire, che ora non ci sono più: intendo dire che il costante e abbondante studio del lessico, insieme con la continua frequentazione dei testi, letti e riletti in grande quantità, ci consentivano di imparare se non altro a leggere i testi, a scorrerli con una certa agevolezza, I ragazzi che ho seguito negli ultimi 9 anni mi confermano che lo studio del lessico è quasi a zero, e la frequentazione dei testi bassissima. Voglio dire: non solo è un metodo faticoso e poco redditizio, ma a quel che vedo attualmente è utilizzato spesso anche molto male.
    In ogni caso, per me rimane fondamentale l’esperienza che feci da giovane rispetto alla lingua ebraica. Dopo aver cominciato lo studio di questa lingua antica così distante dalla nostra, ho avuto occasione di seguire un corso intensivo di ebraico moderno (in realtà, come sapete, l’ebraico attuale è l’antico ebraico “resuscitato” in occasione della nascita dello Stato di Israele). Ho visto letteralmente la mia testa funzionare in modo diverso, e ciò che prima mi era difficoltoso e macchinoso è diventato ad un tratto semplice e naturale, al punto di capire abbastanza dei testi antichi che leggevo.
    Per questo quando, diversi anni dopo, partecipai a Montella al Convegno sulla didattica delle lingue classiche (1998), per me si trattava di sfondare una porta aperta.
    Tuttavia concordo: c’è ancora una insensata e ostinata ostilità (perdonate il bisticcio) verso il metodo natura. Sono dalla vostra parte, e per quanto sta in me cerco di portare avanti questo discorso. Anche con i miei allievi. Che sono affascinati all’idea del metodo natura.
    Una domanda: voi conoscete a Bologna o Ferrara e provincia qualcuno che lo pratichi e lo insegni?

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    • Parole sante sì!!
      Se non ci fosse da mettersi le mani nei capelli, ci si potrebbe scrivere una commedia stile Goldoni! Sentite a che cosa mi è capitato di assistere niente meno che a un TFA, che avrebbe dovuto preparare dei futuri docenti:
      * una buona parte del corso di latino si articolava su di alcuni dettagli a proposito di una teoria grammaticale, senza poi fornire alcun appiglio sulla sua applicabilità in classe (reperimento testi compreso)
      * ai candidati è stato chiesto di tradurre un capitolo a testa di un libro dal francese sul passaggio dal latino alle lingue romanze: molto interessante, ma perché lo dovevano tradurre i candidati (senza poi poterne nemmeno parlare all’esame!)?
      * ore di lezione e seminari dedicati a un argomento più filosofico che linguistico, perché serviva ai docenti per un imminente convegno
      * docenti di italiano che non sapevano interpretare le Indicazioni Nazionali, scandalizzandosi per l’insistenza posta sui testi tecnici (chi è cresciuto tra liceo e Università, evidentemente ignora anche la semplice esistenza di altre realtà!)
      * ancora docenti di italiano “scandalizzati” per il linguaggio non tortuoso (alias prosa universitaria, mi spiace, è proprio così) di una relazione di tirocinio, dove il testo doveva riflettere la pratica vissuta dal neodocente: che io sappia, una delle qualità più importanti per un insegnante è proprio quella di farsi capire anche dagli ultimi e questo all’Università viene considerato un imperdonabile difetto!
      * e non finisce qui: prima ho nominato una “relazione di tirocinio”, che qualcuno chiamava anche “tesi”. Ebbene, si mettano d’accordo, perché scopi e stile, in questo caso, sono notevolmente diversi e non cumulabili. Da questo bisticcio accademico sono scaturiti malintesi che hanno portato più di qualche candidato a perdere punti preziosi per le graduatorie
      C’è da chiedersi se i dinosauri si siano davvero estinti!
      Iris

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