È certo prassi non comune cominciare un racconto dalla fine: ma a volte le parole di un amico – e a maggior ragione quando ormai siamo troppo lontani per sentire – riescono a dare il senso di una vita intera.

Marziale si spense nella Spagna che gli aveva dato la luce, probabilmente nella cittadina di Bilbilis – tanto spesso ricordata nei suoi epigrammi – dove aveva fatto ritorno da quella Roma «santa e dissoluta» a cui aveva cercato di dare il volto più umano possibile, indulgendo sui difetti, indagando i costumi, con il tipico interesse che l’artista, da spettatore, nutre nei confronti delle piccolezze, dei pettegolezzi, delle chiacchiere e dei sussurri: non ci sono tribunali e condannati nella narrazione che Marziale intesse in anni e anni di produzione letteraria, c’è la consapevolezza di una tagliente ironia, c’è un tessuto retorico a volte prevedibile ma sempre d’effetto. C’è l’esperienza di un uomo d’intrattenimento, insomma, e una indubbia capacità narrativa: la capitale non è un covo di dannati e nemmeno una città di santi. È varia l’umanità, vari i vizi e i sotterfugi.
Plinio il Giovane, suo caro amico e tra l’altro sostenitore, scrisse una lettera all’amico Prisco per informarlo della morte di Marziale (Epistolario, III, 21) facendone, con l’occasione, un ritratto: non solo gli aveva dedicato degli epigrammi – e uno, a quanto pare, se lo ricorda persino a memoria; ma addirittura dice dell’amico che non solo gli aveva dato tanto ma, potendo, gli avrebbe dato tutto.
Per noi, però, sono particolarmente interessanti le parole con cui Plinio descrive in prima battuta la personalità di Marziale (Ep. III, 21, 1)
Erat homo ingeniosus acutus acer, et qui plurimum in scribendo et salis haberet et fellis, nec candoris minus.
Era un uomo ingegnoso, sottile, penetrante, che scrivendo dimostrava di avere moltissimo spirito e malignità, e non meno chiarezza.
Il candor a cui fa riferimento Plinio non è soltanto una questione personale, una qualità umana, né tantomeno ha a che fare con la brillantezza, come ci dimostra l’evidente legame con il termine candidus: si potrebbe infatti pensare che si tratti di una qualità letteraria, della capacità di spiegare e raccontare in modo chiaro che dovrebbe esser propria di tutti i grandi poeti, ma trattandosi di un termine con implicazioni anche morali, possiamo pensare che si riferisca anche all’uomo Marziale, quasi fosse un omaggio al famoso lasciva est nobis pagina, vita proba ( I, 4, 8), oltre che un evidente richiamo a VII, 25 in cui si afferma (vv. 1-6):
Dulcia cum tantum scribas epigrammata semper
Et cerussata candidiora cute,
Nullaque mica salis nec amari fellis in illis
Gutta sit, o demens, vis tamen illa legi!
Nec cibus ipse iuvat morsu fraudatus aceti,
Nec grata est facies, cui gelasinus abest.
Scrivendo sempre dolci epigrammi e più bianchi | della pelle coperta di cerussa | senza nemmeno una briciola di sale né di amaro fiele | una goccia, sciocco, e vuoi che tuttavia siano letti! | Neppure il cibo piace, privato della morsa dell’aceto, | né gradito è il volto, a cui manchi il sorriso.
Con questo breve esempio riusciamo a vedere come Plinio usi proprio le parole di Marziale per definire l’amico, quasi ritorcendogli contro questo epigramma particolarmente risentito verso un ‘collega’ incapace di scrivere epigrammi sine candore.
Da questi pochi versi, riusciamo a capire come Marziale non fosse un poeta sensibile ai richiami della mitologia, delle complesse descrizioni e delle metafore argute: il suo candor non è quello che si ascrive normalmente a un poeta capace di dare alle parole la limpidezza del sorriso di Afrodite – ci provo anche io, per farmi capire meglio – ma alla persona che sia in grado di guardare alla realtà, senza bisogno di metafore ardite e divinità.
Una pagina lasciva, quella di Marziale, non solo per le incursioni spesso molto vivaci nell’erotismo e in quod pruriat, per dirla con Catullo (XVI, v. 9), cioè «ciò che pizzica», ma anche perché sostanzialmente priva di quei riferimenti al mito che tanto facevano piacere ai grammatici e ai «poeti laureati» – se è concesso citare Montale.
È la realtà la vera protagonista degli epigrammi di Marziale, ed è spesso la realtà ad essere colta in fallo da quel sarcasmo pungente o da quell’inesistente pudore che ancora oggi scandalizza alcuni di noi – facendone sorridere molti di più.
Piaceva Marziale, e ne era felice, a un pubblico vastissimo (IX, 81, vv. 1-2) ma non incontrava il favore dei ‘colleghi’:
Lector et auditor nostros probat, Aule, libellos,
Sed quidam exactos esse poeta negat.
Il lettore e lo spettatore, Aulo, approva i miei libretti | ma un poeta afferma che non sono perfetti.
Questo astio nei suoi confronti derivava dal fatto che si dedicava a una poesia di puro intrattenimento, una poesia percepita come bassa e di poco valore letterario, nello stesso modo in cui oggi si giudica molta letteratura cosiddetta di consumo: ma, a differenza di molti ‘scrittori’ di oggi, Marziale non si limita a dire «Io vendo, voi no» – anche perché, per sua grande sfortuna, non esistevano diritti d’autore – ma si giustifica con una dichiarazione di poetica, che ricorda tra l’altro il famoso carmen XCIII di Catullo, quello contro Cesare:
Non nimium curo: nam cenae fercula nostrae
Malim convivis quam placuisse cocis.
Non me ne importa un accidente: infatti le portate della mia cena | preferisco piacciano agli ospiti che ai cuochi.
In questo modo, Marziale fa capire che il suo vero interlocutore non sono i suoi simili, come avveniva nella cerchia dei neoterici: Marziale ha un rapporto diretto solo con il suo pubblico e gli importa soltanto che la sua poesia piaccia a coloro per cui la prepara, con tutta la cura del caso. Del giudizio dei colleghi, l’abbiamo capito, può farsene tranquillamente una ragione.
Questo avviene a maggior ragione se pensiamo che non solo la poesia di Marziale venne apprezzata da un gran numero di persone grazie alla pubblicazione, ma che anche per lui rappresentò una scelta di vita, certo non facile: gli avrebbe reso molto di più dedicarsi al foro come Quintiliano, ma preferisce, nonostante le sue capacità, godersi la vita e accontentarsi di poco: dice infatti che properat vivere nemo satis (II, 90, v. 4) cioè che «nessuno si affretta a vivere» – possono rimandare il momento di vivere tutti quelli che sognino di aumentare le sostanze di famiglia o inseguano gli onori dei padri.
Una scelta, questa, non facile certamente. I suoi epigrammi ci offrono la testimonianza di una fitta rete di protettori e ammiratori, pronti ad aiutarlo al bisogno – come Plinio, ad esempio – nei confronti dei quali prova tanta gratitudine e un po’ di amarezza: i tempi in cui un poeta poteva godere dei munera Maecenatis (VIII, 55) sono lontani, e lui stesso potrà tornare nella terra d’origine solo grazie all’intervento di Plinio. La via delle Muse, del resto, è cosparsa di miele e raramente d’oro – Marziale odierebbe un finale del genere.
Giulio Bianchi
Centro Nazionale di Studi Classici GrecoLatinoVivo
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