
La ridotta produzione letteraria di Persio
Spesso la palma del ‘poeta difficile’ tocca proprio ad Aulo Persio Flacco, che di certo non se ne dispiacerà. Del resto, che la sua opera attiri l’attenzione è quasi scontato: un corpus certo non paragonabile per quantità a quello dei suoi illustri colleghi – vengono per forza in mente Orazio e Giovenale – ma che fin da subito, gli seppe procurare l’apprezzamento, come dimostrano le parole di Quintiliano (Institutio oratoria, X 94): multum et verae gloriae quamvis uno libro Persius meruit.
Quindi, nonostante l’esigua produzione, Persio rimase impresso anche nella mente dei contemporanei, conquistando una <<grande e meritata gloria>> nonostante avesse scritto soltanto un libro di Saturae e una manciata di versi. Callimaco già nel III sec. a. C. ammoniva a non misurare la poesia sulla base della base del numero dei versi, ma di usare come unico metro di giudizio la misura inflessibile della capacità del poeta.
Questo criterio vale, a maggior ragione, per una poesia satirica del tutto particolare come quella di Persio, che si trova a vivere in uno dei momenti più letterariamente fecondi, per quanto umanamente tragici, della storia romana. Nato a Volterra nel 34 d. C., in ragione del proprio talento e degli studi intrapresi a Roma, riesce ad entrare nella cerchia che ruota attorno alla famiglia di Seneca, divenendo intimo amico di Lucano e, soprattutto, incontrando una figura che lo influenzerà profondamente: il suo maestro, Anneo Cornuto – probabilmente un liberto di Seneca, di cui è rimasto un trattato in lingua greca sulla teologia.
È lo stesso giovane autore – morirà nel 62 d. C. e non vedrà il bagno di sangue della congiura di Pisone – a raccontare la sua ‘conversione alla filosofia’ nella quinta satira, dedicata appunto al maestro.
Al tema centrale, quello della libertà – intesa in senso stoico, e quindi libertà spirituale e non materiale – si affianca un affettuoso ricordo del maestro, che assume la forma di un dialogo, tra Persio e – in forma figurata – Cornuto.
Le insidie delle verba togae
Ma prima di riflettere sulla riconoscenza di Persio nei confronti del maestro, può essere utile sapere dall’autore stesso quali sono gli obiettivi di cui nutre la propria poesia e a cui tende la propria aspirazione (Saturae V vv. 14-16) che sono, nella finzione poetica, pronunciate dal maestro:
verba togae sequeris iunctura callidus acri,
ore teres modico, pallentis radere mores
doctus et ingenuo culpam defigere ludo.
Tu insegui le parole della toga, capace nell’associazione pungente, mai affettato nello stile misurato e in grado far stridere le male usanze di oggi e a guardare negli occhi il vizio con l’ironia di un uomo libero.
Invito ora a fare qualcosa che sicuramente può essere controproducente, almeno per chi scrive: aprite Google, il libro di letteratura latina o – perché no – la vostra edizione di Persio. Compulsate avidamente le pagine fino ad arrivare alla prima che reca il testo della quinta satura. Scoprirete che questa traduzione non somiglia affatto a quella che c’è su quel libro – e non solo perché chi ha tradotto è stato o capace o un copione accorto, memore dei tempi del liceo – ma, se proseguite in questa vana ricerca, potrete vedere come sia possibile tradurre questi tre versi in modi molto diversi, a seconda della sensibilità del traduttore.
Si sente spesso dire che <<tradurre è tradire>> e nessuno mette in dubbio questo portato dell’esperienza comune. Le difficoltà di traduzione accompagnano da sempre gli studenti, gli amanti e persino i ‘professionisti’ delle lingue classiche: la maggior parte delle volte risulta difficile tradurre perché è colpa del traduttore, che magari non riesce a capire subito i propositi dell’autore, ma ci sono dei casi in cui diventa difficile perché ogni parola diventa un tradimento, come le menzogne degli amanti. Quando si sente ripetere che sarebbe molto più utile leggere i testi direttamente si intende soprattutto dire che vi sono dei casi in cui la traduzione è parziale: spesso, tradurre significa accontentarsi del contorno e ricalcare su un lucido trasparente il quadro a colori di un poeta o di un autore – e ciò riguarda tutte le lingue e tutti i grandi poeti, intendendo poeta in senso generale.
Ecco, Persio costruisce una poesia difficile e lo fa volontariamente: la polifonia, tipica del genere della satira in cui si confrontano uno o più personaggi, diventa anche una esasperata polisemia, cioè un continuo rimbalzo di significati e significanti – più terra terra: di concetti e di parole – che serve da un lato a scacciare l’idea di una poesia che sia dotta solo di maniera, come si vede nel prosieguo della satira (vv. 17-18) in cui si raccomanda al poeta di lasciare <<a Micene la tavola apparecchiata con teste e piedi>> – un evidente richiamo non solo al mito ai truculenti pasti avvenuti a Micene – genitori che si nutrono inconsapevolmente delle carni dei figli, come Tieste per mano di Atreo – ma anche a una poetica profondamente satirica che fonda la sua essenza nello sguardo tagliente di un poeta, in quell’ingenuus ludus richiamato proprio nei versi appena letti.
Del resto le stesse verba togae di per sé non sono di facile interpretazione: è vero che la toga è l’abito romano per eccellenza e quindi un richiamo alla quotidianità, ma è anche un indumento ufficiale e quindi può essere un riferimento al fatto che si tratta di una poesia che parte dalla quotidianità ma che può lasciarsi andare anche ad argomenti ‘da toga’, cioè argomenti elevati – nel caso di Persio, poesie dalla connotazione fortemente morale.
Anche culpam defigere si presta a interpretazioni varie: il verbo è spesso tipico di contesti in cui un’arma viene conficcata – e il richiamo del ludus può indurre alla suggestione dei ludi, cioè dei giochi pubblici e degli spettacoli gladiatorii tanto amati dalla plebe quanto presi a esempio della dilagante corruzione morale – ma indica anche qualcosa di molto specifico, se si pensa alla defixio, cioè alla maledizione, spesso veicolata attraverso uno sguardo che, appunto, è fermo e ‘trapassa’ il malcapitato.
Tutte queste ipotesi non devono indurci a rinunciare alla poesia, semmai ad apprezzarne il valore: le parole profonde e meditate, non univoche, sono tipiche di coloro che abbiano – come Persio – qualcosa da dire. Bisogna sempre far attenzione a non confondere la polifonia con l’incapacità o, peggio ancora, l’incoerenza: chi sa usare le parole è capace di rafforzare il proprio messaggio anche nell’ambivalenza verbale. Perché, nella molteplicità delle interpretazioni possibili, il messaggio è chiarissimo: Persio non la manda a dire e gira il dito nella piaga, quando necessario, perché il la sua ironia è, esattamente come lui, libera e – si permetta il gioco di parole – ingenua.
Giulio Bianchi
Centro Nazionale di Studi Classici GrecoLatinoVivo