Hera, donna e dèa che non si arrende.

La regina degli dei, sposa e sorella del grande Zeus, dimostra in prima persona che anche se qualcosa ‘è destino’ si può comunque combattere.


Hera, illustrazione di Giovanna Marsilio.
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Una delle scene più famose e commoventi dell’Iliade ha come protagonisti il re e la regina degli dei. Siamo nel canto XVI, quello della morte di Patroclo. Egli, vestito come Achille, prima di lasciare la vita sul campo per mano di Ettore, si fa valere e tra i tanti spedisce nell’Ade anche Sarpedonte, che è figlio di Zeus.

Il Cronide assiste alla battaglia, consapevole del fatto che il destino dell’amato figlio è segnato. Non appena vede che Patroclo e Sarpedonte si incontrano, comincia a parlare con la moglie: un dubbio, atroce e umanissimo, lo attanaglia. Lo potrebbe portare in patria, nella sua Licia, e fare in modo che così scampi alla morte1.

Hera però gli risponde in modo inequivocabile e in modo inequivocabile lo dissuade, poiché tale scelta muoverebbe l’ira di parecchi.

Un uomo, che è mortale, da tempo a un crudele destino votato,
dunque vuoi liberarlo da una morte orribile?
Fallo: ma tutti gli altri dei non son d’accordo.
Un’altra cosa ti dirò, tu tienila stretta nel cuore:
se da vivo manderai Sarpedone nella sua casa,
fa’ attenzione che nessun altro degli dei voglia
mandar via dalla battaglia violenta un figlio amato:
molti, intorno alla grande rocca di Priamo, combattono,
figli d’immortali, a costoro ispirerai un’ira tremenda.
Se a te lui è caro, il tuo cuore ne ha pietà,
lascia che perisca per mano di Patroclo, figlio di Menezio, nella lotta violenta;
ma dopo che l’abbiano abbandonato l’anima e la forza vitale,
manda Thanatos e con lui il dolce Sonno a prenderlo,
che raggiungano il paese della grande Licia,
là gli renderanno omaggio i fratelli e i compagni
con una tomba e una stele: quest’è l’onore dei morti.

(Omero, Iliade, XVI, 440-457)

Zeus sa che Hera ha ragione e offre quasi in libagione a quella terra che sta per portargliene via qualche goccia di sangue. Accetta così il destino e con esso il consiglio della moglie2. C’è dunque un limite alla discrezionalità degli dei. Anche loro, come gli uomini, devono rendere conto a una forza superiore, la necessità, che ne contrasta i sogni e ne spegne i desideri. Di questo dato di fatto Hera è consapevole e lo dimostra molto bene nel saggio consiglio che elargisce a Zeus in un momento di titubanza.

Ma chi è Hera, oltre ad essere la moglie e la sorella di Zeus? Nel Cratilo di Platone3 troviamo due possibili etimologie del suo nome: una dovuta al fatto di essere amata (eratè) e desiderata da Zeus, l’altra molto più interessante. Se proviamo infatti a ripetere continuamente il nome della dea, esso si compone dopo un po’ della parola che indica l’aria (aèr). E dunque, ella appartiene al cielo come il marito e del cielo, infatti è la regina. Con il marito condivide fino a un certo punto l’imperio sugli dei e sui mortali e, anzi, non è raro che nel mito Zeus ed Hera siano contrapposti.

Difatti, non è un caso che Virgilio, nel proemio dell’Eneide (I, v. 4) ascriva a lei la responsabilità del tanto vagare d’Enea, dovuto all’«ira persistente di Giunone crudele». Chi più di lei, infatti, si oppone al ritorno di Enea? Ma soprattutto, nella guerra di Troia, chi tesse inganni per far prevalere i Greci sui Troiani?

Sempre lei. Chi più di lei, infatti, odia la stirpe di Priamo? Un troiano, Ganimede, è diventato coppiere degli dei perché Zeus s’è invaghito di lui, rubando il posto alla sua amata figlia Ebe; un principe dei Troiani ha preferito al suo dono l’amore di una mortale, Elena, offertogli da Afrodite. E, alla fine, un troiano si recherà in una città a lei carissima, Cartagine, e sarà la causa della sua distruzione.

Non è un caso che Virgilio dedichi a Hera proprio l’inizio del suo poema, la dea si adopera fin da subito per contrastare il viaggio per mare dei profughi troiani che si sono appena allontanati dalla Sicilia e sono piuttosto vicini al Lazio. Ma Hera non ci sta: non tollera che ad altri dèi sia stata concessa la vendetta che a lei non è permessa:

Ma io, che, regina, avanzo tra gli dei, di Giove
sia sorella che sposa, con un solo popolo per così tanti anni
combatto. E chi mai adora il nume di Giunone
d’ora in avanti o imporrà sui suoi altari i sacrifici?

(Virgilio, Eneide, 46-49)

L’ira di Giunone non accenna a scemare neppure quando Enea raggiunge il Lazio. Lei non si vuole arrendere, anche se sa benissimo che il fato ha deciso che Enea sposi Lavinia e dia vita a una nuova stirpe. E se lei non può impedire che ciò avvenga, allora è pronta a fare di tutto per ritardare gli eventi e nel frattempo annientare Enea e i suoi alleati4, addirittura arriva a dire che:

E se i miei poteri non sono abbastanza grandi, di certo non esito a fare appello a qualsiasi cosa ci sia:
se non riesco a convincere gli dei del cielo, metterò in moto l’Acheronte.

(Virgilio, Eneide, VII, 310-312)

Com’è possibile che convivano nella stessa divinità la propensione all’inganno e alla vendetta e la consapevolezza del fato? Perché Hera non si arrende, mai. Accetta la realtà di Enea perché non può fare altrimenti e perché i Romani, per gioco del fato, diverranno i suoi pupilli – almeno, così dice Virgilio.

Hera, insomma, difficilmente fa un passo indietro.

Autore
Giulio Bianchi
CNSC GrecoLatinoVivo

Illustratrice
Giovanna Marsilio

  1. Iliade, XVI, 433-438
  2. Omero, Iliade, XVI, 457-461
  3. Platone, Cratilo, 404e.
  4. Virgilio, Eneide, VII, 313-316.

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