
Il tempo è un alleato volubile e un nemico silenzioso. A tutti capita di perderne, a nessuno di acquisirne. L’esperienza del tempo ci accomuna tutti, indipendentemente dalle differenze che ci rendono diversi e dalle corrispondenze che ci rendono tutti quanti umani.
Possiamo aggiungere molte cose alla nostra vita, ma il tempo si consuma inesorabile: quando diciamo di aver perso una giornata dietro a quel problema, nessuno sarà in grado di restituircela.
Siamo tutti destinati a deperire. Abbiamo un’ignota data di scadenza: è questo il nostro limite sacrosanto, con cui dobbiamo confrontarci – specialmente in momenti come questo, in cui dobbiamo imparare a convivere con la nostra precarietà.
La vita di ieri, le nostre abitudini che sembravano granitiche, si sono rivelate, alla prova dei fatti, fragili: un’onda anomala e crudele ha spazzato via i nostri castelli di sabbia, la nostra ‘odiatamata’ normalità.
Ebbene, non abbiamo più i torrioni e le mura. La sabbia bagnata è tornata sabbia. Dobbiamo abituarci a una nuova vita e cadere nell’inerzia è facile, anzi facilissimo – chi scrive è uno dei massimi esperti sull’argomento.
Ci ha lasciati d’un tratto sgomenti l’enorme quantità di tempo a nostra disposizione, come se per incanto alle giornate si fossero aggiunte ore nuove e inesplorate. Abbiamo potuto vedere come tanto del nostro tempo fosse dedicato a cose di poco peso e forse ci siamo sentiti stupidi al pensiero di aver sprecato un po’ della nostra vita, ora che siamo tutti apparentemente fermi in questa doverosa reclusione.

La nostra esperienza di oggi è simile a un esilio, per quanto a noi sia stato imposto per ragioni facilmente comprensibili. Di ritorno dal suo esilio, Seneca dedicò al suocero una delle sue opere più famose, il De brevitate vitae.
Siamo intorno al 49 d.C.
Agrippina lo ha fatto rientrare con il compito – per niente facile – di educare il giovane Nerone.
La vita di Seneca è come divisa tra due poli e il contrasto tra il filosofo e l’uomo è evidentemente aspro – su questo torneremo – mentre il tempo rappresenta uno dei cardini attorno ai quali tutta la riflessione filosofica senecana ruota.
L’idea centrale è ben espressa all’inizio del trattato, per tramite di una sententia, cioè una frase relativamente breve che riassume con forza i contenuti espressi fino a quel momento (I 4):
non accipimus brevem vitam, sed fecimus, nec inopes eius sed prodigi sumus.
Non è poca la vita – e quindi il tempo – a nostra disposizione, ma siamo talmente sciocchi da essere prodighi ed elargire continuamente l’unico bene non rinnovabile di cui disponiamo direttamente. C’è tempo per tutto – spiega Seneca – ma come ogni risorsa anche il tempo va saputo amministrare: infatti aetas nostra bene disponenti multum patet. La nostra aetas – che altro non è che il tempo della vita – si spalanca, si allarga, per chi ne sappia disporre bene.
Ma chi è che sa disporne bene? Chi è in grado di aggiungere tempo al tempo, e soprattutto di disporne con giudizio?
Se fossimo in una classe, molti alzerebbero la mano dicendo in coro: «Il sapiens!», senza con questo riferirsi alla nostra sciagurata specie. Ebbene sì, c’è posto per un solo eroe nel film degli Avengers di Seneca: il sapiens, che non è chi si dedica alla conoscenza in senso lato, ma quello che non sia preso da smania alcuna. Perché la più grande divoratrice di tempo è proprio la smania – smania di potere, smania di bellezza, smania di sapere…
Ci avverte severamente Seneca quando dice omnia tamquam mortales timetis, omnia tamquam immortales concupiscitis (III 4) cioè ci rammenta come i nostri desideri spesso non abbiano fine, mentre i nostri timori sono quasi sempre realistici, a punto che, davanti alla sofferenza, rimpiangiamo spesso di non aver avuto tempo, promettendo che, nel caso in cui la sorte sia benevola, ne terremo di più per noi. Ma non è il tempo che non abbiamo avuto, ne avevamo a sufficienza.
È una lotta impari, almeno in apparenza, quella contro il tempo. E non fa bene nemmeno confidare troppo nel futuro: protinus vive (IX 1), cioè “vivi immediatamente”, è il consiglio che ancora oggi si dà facilmente a chi consumi l’esistenza nell’attesa del domani.
Il futuro per Seneca non è il tempo della speranza, come spesso pensiamo noi, ma è il tempo dell’incertezza: non si può tornare indietro e rimuovere con un colpo di penna gli errori del passato e il futuro è tutto nelle mani della sorte. Abbiamo nelle nostre mani soltanto il presente e per dilatarlo possiamo richiamare il passato e godere non soltanto del nostro tempo trascorso ma anche di quello degli altri: si può addirittura ad nostrum arbitrium nasci (XV 3) cioè scegliere a quale delle tante nobilissimorum ingeniorum familiae appartenere e quindi decidere cosa fare del nostro otium che non è il tempo libero, per il sapiens, ma il tempo speso a migliorare la propria esistenza rendendosi consapevole della propria vita: disputare cum Socrate licet, dubitare cum Carneade, cum Epicuro quiescere, hominis naturam cum Stoicis vincere, cum Cynicis excedere (XIV 2).
E arriva il momento in cui la limitata natura umana viene ampiamente superata, grazie a questa famiglia dell’anima, e in cui si impara persino ad accettare la sofferenza: con l’intervento dell’otium – che non è l’indolenza e nemmeno l’inseguimento di piaceri futili – possiamo elevarci al di sopra della nostra sofferenza. E vivere davvero, anche chiusi in casa, dilatando gli spazi percorsi dalla mente, in attesa che le gambe possano tornare a spaziare per le piazze – e perché no, in attesa del giorno in cui potremo perdere un po’ di tempo tutti insieme.
Giulio Bianchi
Centro Nazionale di Studi Classici GrecoLatinoVivo
Ciao Giulio,
Abbiamo letto in famiglia il tuo articolo e l’abbiamo gradito tantissimo.
Grazie a te e a Seneca!! 🙂
"Mi piace"Piace a 1 persona