Il fascino di Odisseo e le sue vicende possono essere riassunte nelle complessità etimologiche legate al suo nome e farci scorgere il viaggio dopo il viaggio che Tiresia gli annuncia ma che altri grandi poeti hanno immaginato, anche di recente.

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Se c’è una cosa che desta sempre un po’ di stupore nei lettori dell’Odissea è la sua natura narrativamente composita: come in un puzzle la Telemachia si incastra alla narrazione che Odisseo stesso fa, approdato esule e privo di tutto a Scheria, a quella corte dei Feaci in cui possiamo incontrare anche Demodoco, dalla cui bocca sentiamo narrare l’inganno del cavallo e la distruzione di Troia.
Odisseo rappresenta molte cose, ma al di là della fama di cui gode e del suo essere diventato uno dei tanti personaggi che per antonomasia incarnano una qualità – nel suo caso l’astuzia – possiamo immediatamente renderci conto che si tratta di un personaggio sfaccettato, composito. Certo, il ritmo dell’opera a lui dedicata, l’Odissea, è ben diverso rispetto a quello dell’Iliade: anche un lettore distratto si accorge che le vicende di Odisseo sono inserite in una cornice meglio architettata, che i meccanismi della trama sono meno lineari e cronologici, forse anche più efficaci. In antico si era pensato che l’Odissea fosse stata opera della maturità di Omero, mentre l’Iliade, impetuosa nella sua sconcertante semplicità rispetto agli incastri narrativi del nostos per eccellenza, frutto dei bollori della gioventù.
Non possiamo discutere approfonditamente né la questione omerica né tantomeno analizzare i particolari narrativi dell’opera, ma possiamo permetterci, fortunatamente, di cogliere alcuni aspetti peculiari della figura di Odisseo, a partire dal suo nome.
La tentazione di chiamarlo Ulisse è sempre in agguato, ma cosa vuol dire Odisseo? Be’, pensate un attimo al significato della parola odissea, in italiano. Quante volte, arrivando concitati, ci siamo giustificati dicendo: «Scusate ma stamani è stata un’odissea», volendo con questa parola indicare non solo un peregrinare senza scopo tra treni in ritardo, cancellazioni improvvise o improbabili incidenti che provocano sconcertanti cambi d’itinerario, ma anche una sofferenza che si accompagna a tutti questi intoppi che, uno dietro l’altro, non ci hanno permesso di essere dove dovevamo essere nel momento in cui era meglio esserci – proprio come Odisseo e Itaca.
All’avventura che è senz’altro l’attrattiva maggiore che le vicende del re di Itaca hanno da offrirci, si accompagna sempre uno sfondo di sofferenza. Ma torniamo al nome: l’etimologia ci viene offerta dalla stessa Odissea, dove possiamo assistere al racconto da parte di Euriclea, la serva fedele che per prima riconosce il padrone, delle circostanze della nascita di Odisseo, a cui il nome era stato dato dal nonno, Autolico, padre di Anticlea, sposa di Laerte e figlio di un altro gran bell’imbroglione, cioè Ermes – parentela quest’ultima che spiega anche l’astuzia del nipote.
Genero mio e figlia, dategli il nome che dico:
qui io vengo essendo adirato con molti,
uomini e donne, su tutta l’altrice terra:
abbia dunque nome d’Odisseo.(Odissea, XIX, vv. 406-409)
Nel testo greco l’assonanza è, ovviamente molto più perspicua rispetto a questa, banale, che possiamo avere in italiano: infatti Autolico si definisce odyssamenos e dà nome al nipote Odysseus.
Il verbo da cui il nome dell’eroe prende spunto è stato oggetto di lunghe disquisizioni nel corso del tempo: un po’ perché, diciamolo, sembra fatto a tavolino – e non ci sarebbe nulla di male, sia chiaro; un po’ perché è molto difficile capire il significato del verbo, cioè se esso vada messo in relazione, come pure si tende a fare, con l’ira (il significato del verbo sarebbe dunque ‘essere arrabbiato’) o se sia possibile metterlo in relazione con la radice che ha dato vita alla parola latina odium – e significherebbe odiare, quindi – o addirittura quella che si riscontra in parole come odyne, che indica la sofferenza.
In realtà, se guardiamo bene alla vicenda di Odisseo, ci rendiamo conto che questi elementi (l’odio, l’ira, la sofferenza) sono tutti quanti presenti nella vicenda di Odisseo e la informano.
A questo proposito è bene avere presenti le parole di Tiresia, che da Odisseo viene interrogato nell’Ade. Tiresia, che interpreta la volontà divina e coglie il disegno divino dietro il corso del destino umano – non è uno che guarda nella palla di cristallo insomma, semmai lui riesce a vedere quelli che ‘hanno’ la palla di cristallo, cioè gli dei, e possono influire sul destino dell’uomo.
La previsione di Tiresia, infatti, invita Odisseo prima a stare attento di non incorrere nell’ira di Helios, le cui vacche nell’isola di Trinachia non vanno nemmeno toccate, e poi procede a illustrargli in che modo possa liberarsi dell’odio che Poseidone nutre nei suoi confronti. Il ritorno a Itaca, quel tanto agognato ritorno, si presenta dunque come l’ennesima tappa di un altro viaggio, che porterà l’eroe in una terra abitata da «quelli che non conoscono il mare» (Omero, Odissea, XI, 122) dove dovrà compiere l’estremo rito espiatorio per poi ritornare a casa dove, sacrificate le dovute ecatombi a tutti gli dei, avrà forse quella pace che credeva di trovare a Itaca. Una «morte fuori dal mare» (Omero, Odissea, XI, 134) attende l’eroe d’Omero, ma il viaggio nel viaggio per antonomasia, la nuova avventura dopo l’avventura hanno ispirato poeti d’ogni tempo, non solo la virtute e canoscenza dantesca, e un mito che sbiadisce a partire dal timone appeso al focolare nell’Ultimo viaggio di Pascoli, ma persino una canzone, intitolata Odysseus, nemmeno troppo vecchia, di Francesco Guccini.
Autore
Giulio Bianchi
CNSC GrecoLatinoVivo
Illustratrice
Giovanna Marsilio