La sua assenza in Tucidide e il modo in cui viene introdotta da Plutarco nella vita di Pericle ci consentono di introdurre questa figura indubbiamente affascinante.
Nel 1834, nella cornice della splendida Napoli che gli diede asilo nei suoi ultimi anni, Giacomo Leopardi scrisse una poesia destinata a segnare un intero ciclo poetico all’interno dei suoi Canti, intitolata Aspasia.

Illustrazione di Giovanna Marsilio per Centro Nazionale di Studi Classici GrecoLatinoVivo
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Non ci stupisce che un poeta ricorra a quello che tecnicamente si definisce criptonimo, a una sorta di nome d’arte, per designare la donna amata. Lo fece Catullo con Lesbia, tra i tanti, e non è mai una scelta casuale: il nome Aspasia non rimanda soltanto alla compagna di Pericle ma anche al verbo greco aspazomai che significa sì abbracciare, ma anche desiderare. E dunque già dal nome che Leopardi sceglie per definire la sua amata, abbiamo modo di cogliere ciò che leggendo quelle bellissime e tormentose poesie diventa immediatamente chiaro: non è un amore, è un desiderio d’amore, l’amore per una donna ritratta a giocare coi suoi figli a cui Leopardi dona il suo cuore ma che resta soltanto un desiderio destinato a non realizzarsi. È di fronte a quest’ultimo simulacro d’amore che l’«inganno estremo» si spezza e anche l’ultima grandissima illusione abbandona la vita del poeta.
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